IL TRIBUNALE 
 
    Il Tribunale di Tivoli, nella persona  del  Giudice  unico  dott.
Alessio Liberati, nel procedimento iscritto al numero 3481/2011 RG  e
proposto: dalla sig.ra D.A. nata a Roma il  6.6.1968  (c.f.........),
rappresentata e difesa dagli avv. Maria  Teresa  Pagano  e  Valentina
Celi ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell'avv. Lamberto
De Angelis in Tivoli (RM), via Inversata n. 19 (fax 06.37352440 e PEC
avvmariateresapagano@puntopec.it), giusta delega in atti, ricorrente; 
    Nei confronti del sig. M.M. nata  a  Tivoli  il  23.3.1965  (c.f.
.........), rappresentato e difeso  dall'avv.  Amedeo  De  Santis  ed
elettivamente domiciliato presso il suo studio in  Tivoli  (RM),  via
del     Gesu'     n.     2      (fax      0774.015847      e      PEC
amedeo.desantis@pecavvovatitivoli.it),   giusta   delega   in    atti
residente; 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza con la quale si  solleva  di
ufficio questione di legittimita' costituzionale. 
 
                              In fatto 
 
    L'attrice ha citato in giudizio il convenuto  in  data  9.9.2011,
chiedendo a questo Tribunale di voler dichiarare la cessazione  degli
effetti civili del matrimonio e di voler provvedere allo scioglimento
della comunione dell'immobile destinato a casa coniugale, sito in T.,
via S. e n. 40. 
    Il convenuto  si  e'  costituito  in  data  28.2.2012,  chiedendo
anch'egli la dichiarazione di cessazione  degli  effetti  civili  del
matrimonio  e  la  revisione,  in  suo   favore,   delle   condizioni
economiche,  essendo  il  figlio  divenuto  maggiorenne   ed   avendo
attivita' lavorativa  propria,  ancorche'  saltuaria.  Si  e'  invece
opposto  alla  istanza  di  divisione  dell'immobile  ed  ha  chiesto
dichiararsi l'inammissibilita' della relativa domanda. 
    In sede di udienza, il 23.5.2012, il convenuto ha chiesto inoltre
pronunciarsi l'improcedibilita' del ricorso, ove non preceduto  dalla
mediazione obbligatoria, trattandosi di materia per la quale  sarebbe
obbligatorio l'esperimento  del  tentativo  di  mediazione  ai  sensi
dell'art. 5 del d.lgs. 28/2010. 
    Il  tribunale  ritiene  che  la  domanda  di  scioglimento  della
comunione insistente sulla casa coniugale  sia  ammissibile,  potendo
certamente essere introdotta in sede di divorzio. 
    Si pone quindi il problema se la controversia rientri  in  quelle
previste dall'art. 5 del d.lgs. 28/2010, e segnatamente nella materia
della divisione, o, rectius, se la procedura sia  obbligatoria  anche
in caso di giudizio divisorio introdotto nell'ambito di  controversia
in materia di diritto di famiglia (e segnatamente in un  giudizio  di
divorzio), posto che prevede un rito specifico con apposito tentativo
di conciliazione da effettuarsi a cura del Presidente del Tribunale o
di un giudice delegato nella c.d. fase presidenziale,  come  avvenuto
nel caso di specie. 
    Il  problema  in  diritto  concerne  quindi  la   condizione   di
procedibilita' del giudizio, che e' certamente rilevante e prodromica
per la successiva prosecuzione del  giudizio,  dovendo  nel  caso  il
Giudice assegnare i termini di legge per esperire la mediazione. 
 
                             In diritto 
 
La norma in questione e la sua interpretazione. 
    L'art. 5 del d.lgs. 28/2010 sancisce che: 
    «1. Chi intende esercitare in giudizio un'azione relativa ad  una
controversia in materia  di  condominio,  diritti  reali,  divisione,
successioni  ereditarie,  patti  di  famiglia,  locazione,  comodato,
affitto  di  aziende,  risarcimento   del   danno   derivante   dalla
circolazione di veicoli e natanti, da  responsabilita'  medica  e  da
diffamazione  con  il  mezzo  della  stampa  o  con  altro  mezzo  di
pubblicita', contratti assicurativi, bancari e finanziari, e'  tenuto
preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione ai sensi del
presente decreto ovvero il procedimento di conciliazione previsto dal
decreto legislativo 8 ottobre 2007, n. 179,  ovvero  il  procedimento
istituito in attuazione dell'articolo 128-bis del testo  unico  delle
leggi in materia bancaria e creditizia di cui al decreto  legislativo
1° settembre 1993,  11.  385,  e  successive  modificazioni,  per  le
materie ivi regolate. L'esperimento del procedimento di mediazione e'
condizione di procedibilita' della domanda giudiziale. 
    L'improcedibilita' deve essere eccepita dal convenuto, a pena  di
decadenza, o rilevata  d'ufficio  al  giudice,  non  oltre  la  prima
udienza. Il giudice ove rilevi che la mediazione e' gia' iniziata, ma
non si e' conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza  del
termine di cui all'articolo 6. Allo stesso modo  provvede  quando  la
mediazione non e' stata  esperita,  assegnando  contestualmente  alle
parti il termine  di  quindici  giorni  per  la  presentazione  della
domanda di mediazione. Il presente comma non si applica  alle  azioni
previste dagli articoli 37, 140 e 140-bis del codice del  consumo  di
cui al decreto legislativo 6 settembre 2005,  n.  206,  e  successive
modificazione. 
    Al successivo comma 4 sono previste espressamente le esclusioni: 
    «4. I commi 1 e 2 non si applicano: 
    a) nei procedimenti per ingiunzione, inclusa l'opposizione,  fino
alla pronuncia sulle  istanze  di  concessione  e  sospensione  della
provvisoria esecuzione; 
    b) nei procedimenti per convalida di licenza o sfratto,  fino  al
mutamento del rito di cui all'articolo 667 del  codice  di  procedura
civile; 
    c)  nei  procedimenti  possessori,  fino   alla   pronuncia   dei
provvedimenti di cui all'articolo 703, terzo  comma,  del  codice  di
procedura civile; 
    d) nei procedimenti di opposizione o  incidentali  di  cognizione
relativi all'esecuzione forzata; 
    e) nei procedimenti in camera di consiglio; 
    f) nell'azione civile esercitata nel processo penale». 
Il significato non  univoco  della  norma,  quanto  alla  definizione
dell'ambito di applicazione, in termini generali. 
    Si pone - con riferimento alla fattispecie in oggetto - il dubbio
relativo all'ambito applicativo della norma, ed in  particolare  alla
sua obbligatoria esperibilita' anche nel caso in cui la  domanda  sia
inserita in un ricorso avente altro e totalmente diverso oggetto, nel
caso di specie la materia divorzile. 
    Affrontando  il  tema  in  termini  generali,  la  lettura  delle
eccezioni  di  cui  al  successivo  comma  4,   poc'anzi   riportato,
porterebbe  ad  escludere  dall'ambito  di   applicazione   le   sole
fattispecie espressamente indicate. 
    Se ne dovrebbe concludere che la presente controversia, in quanto
avente ad oggetto  anche  una  domanda  di  divisione,  debba  essere
oggetto di mediazione obbligatoria. Non sono infatti previste deroghe
in ipotesi di domande plurime che abbiano anche diversi petita. 
    Tuttavia, la controversia segue - non a caso - un rito  speciale,
nel quale e' gia' prevista una attivita' di mediazione, rispetto alla
quale l'istituto di cui all'art. 5 del d.lvo  28/2010  finirebbe  con
l'aggravare il processo ed allungarne i tempi. 
    Per  contro,  potrebbe  offrire  elementi  utili   -   anche   in
considerazione della diversa dinamica e del separato iter,  connotato
da specifiche competenze degli addetti alla mediazione - che potrebbe
agevolare  la  definizione  della  parte  economica   relativa   alla
divisione. 
    Vi sono dunque sia elementi a favore che elementi  contrari  alle
diverse soluzioni possibili e, ad avviso di questo giudice, manca  un
criterio «dirimente». 
    La norma, come detto, non e' chiara  e  non  e'  suscettibile  di
univoca interpretazione, non avendo previsto alcunche' in  merito  al
rapporto tra riti diversi. In sostanza non e'  in  grado  di  offrire
quella certezza della regola che deve essere propria della  norma  (e
che ne connota la funzione) rimettendo il compito di  legiferare  «di
fatto» al Giudice, con cio' delegando all'autorita'  giudiziaria  una
vera e propria attivita' normativa, anziche' ermeneutica e rischiando
di porre le parti (gli utenti della Giustizia) in  una  inaccettabile
situazione di incertezza giuridica. 
    Deve dunque verificarsi la compatibilita'  costituzionale  di  un
simile legiferare sotto il profilo della incertezza  che  deriva  nel
diritto. 
Sulla rilevanza della questione nella fattispecie alla attenzione del
tribunale. 
    Va precisato che la questione che si  sottopone  alla  attenzione
del Giudice delle Leggi e' di assoluta rilevanza per  la  fattispecie
alla attenzione di questo Tribunale. 
    Nel caso di specie  la  questione  di  diritto  appena  descritta
appare di imprescindibile soluzione per la decisione, trattandosi  di
norma che prevede urta questione prioritaria rispetto ad  ogni  altra
analisi e considerazione in rito ed in  merito:  la  improcedibilita'
del giudizio (rilevabile ex affida) in caso  di  mancato  esperimento
della mediazione obbligatoria. 
    Si  deve  quindi  preliminarmente  verificare  se  la  norma  sia
costituzionalmente  legittima,  nella  sua  genericita',   e   quindi
applicabile, e se la formulazione adottata lasci al giudice un potere
realmente interpretativo, come tale attribuitogli dall'ordinamento, o
qualcosa di diverso che esula dalla mera attivita' ermeneutica. 
    Va anche rammentato che la procedura in questione (la  mediazione
obbligatoria) e' onerosa per le parti e  determina  un  considerevole
allungamento  della  risposta  della  giustizia  (la  esclusione  dal
computo ai fini della ragionevole durata  del  processo-prevista  dal
medesimo  divo  28/2010,   invero,   si   ritiene   non   linea   con
l'orientamento della Corte di Strasburgo, almeno per  le  ipotesi  di
mediazione  iniziata  dopo  la  proposizione  dell'azione),   sicche'
potrebbe tradursi in un aggravio del diritto di difesa, ove  disposta
dal giudice nelle ipotesi in cui non e' non prevista. 
    Non  dissimilmente,  ove  omessa  ma   ritenuta   successivamente
doverosa dal giudice di appello  o  dalla  Cassazione,  potrebbe  dar
luogo remissione in termini e rinvio al giudice di  primo  grado,  al
fine di superare la eccezione di  improcedibilita',  essendovi  stata
richiesta delle parti. Egualmente ili avrebbe un aggravio  dei  costi
ed un allungamento dei processi. 
    Infine, non va sottaciuto che la giurisprudenza  della  Corte  di
Giustizia (nella causa C-379/10) ha  censurato  l'attuale  regime  di
irresponsabilita' dello Stato (ancorche' non dei singoli giudici) per
le ipotesi di colpa lieve dei magistrati  -  ipotesi  che  certamente
potrebbe essere  contestata  nel  caso  di  specie,  ove  l'autorita'
giudiziaria si dovesse attribuire  un  potere  che  esula  da  quello
strettamente ermeneutico, ed in sostanza  arbitrario,  pervenendo  ad
una decisione non corretta  -  affermando  che  con  il  limitare  la
responsabilita' ai  soli  casi  di  dolo  o  colpa  grave,  ai  sensi
dell'art. 2, commi 1 e  2,  della  legge  n.  117/88,  la  Repubblica
Italiana e' venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza del
principio  generale  di  responsabilita'  degli  Stati   membri   per
violazione del diritto dell'Unione da parte di uno dei propri  organi
giurisdizionali. 
Impossibilita' di un'interpretazione univoca della norma. 
    Nel silenzio della legge, ad avviso di questo giudice, vi e'  una
sostanziale impossibilita'  di  urta  interpretazione  univoca  della
disposizione. Il potere decisorio del  giudice  sconfinerebbe/  nella
fattispecie in quello creativo del precetto,  anziche'  limitarsi  ad
una interpretazione dello stesso, non  essendovi  alcuna  indicazione
normativa in merito al rapporto tra  rito  divorzile  e  giudizio  di
divisione nell'ottica della mediazione. Cio'  peraltro  potrebbe  dar
luogo  (come  sta  effettivamente   accadendo)   ad   interpretazioni
divergenti o contrapposte  da  parte  dei  vari  giudici  di  merito,
determinando una mancanza di certezza del diritto. 
    In altre parole, alla luce della assoluta genericita' della norma
in questione,  ritiene  quindi  il  giudice  che  non  sia  possibile
esprimersi nel  senso  di  una  chiara  intellegibilita'  ed  univoca
portata precettiva della norma. 
    Percio' una qualsiasi interpretazione si tradurrebbe in una  vera
e propria  scelta  arbitraria  del  giudice,  che  finirebbe  con  il
sostituirsi al legislatore, piuttosto che  farsene  mero  interprete.
Non  vi  sono  invero  ad  avviso  di  questo   giudice   riferimenti
«ermeneutici» - ne' di  carattere  letterale,  ne'  sistematico,  ne'
logico - che possano giustificare una univoca interpretazione. 
Premessa sulla rilevanza costituzionale del  dubbio  ermeneutico:  la
mancanza di certezza del diritto integrante una violazione  dell'art.
6 CEDU 
    Sono noti gli impatti economici (e non)  che  le  sentenze  della
CEDI) hanno avuto sull'irrisolto problema  della  ragionevole  durata
del processo, e che hanno portato  alla  normatizzazione  della  c.d.
legge Pinto. 
    Ritiene  questo  giudice  che  costituisca  un'altra  e   diversa
questione,  altrettanto  preoccupante  e   del   tutto   sottostimata
nell'ordinamento italiano, che  potrebbe  portare  anch'essa  ad  una
elevatissima casistica di condanne per  la  Repubblica  Italiana,  in
qualita'  di  parte  aderente  alla  Convenzione   Europea   per   la
Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo. Ci si riferisce  alla  violazione
dell'art. 6 della  Convenzione  EDU  sotto  il  profilo  del  «defaut
securite' jurichque» , cioe' della certezza del diritto. 
    Invero una moltitudine di questioni ermeneutiche sono  affrontare
- a causa  della  scarsa  determinazione,  della  non  univocita'  di
significato  ed   intellegibilita'   delle   norme   -   in   termini
assolutamente diversi dalla giurisprudenza, non  esclusa  la  Suprema
Corte di Cassazione, financo a Sezione Unite. 
    La funzione di nomofilachia attribuita alla Cassazione a  Sezioni
Unite, del resto, e' uno strumento solo in parte  dirimente,  per  un
duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, alla  luce  della  irrisolta
questione della durata  dei  processi,  l'eventuale  decisione  delle
Sezioni Unite interviene in genere ad anni di distanza dal momento in
cui si crea il dubbio ermeneutico, costringendo le parti a rivolgersi
alla autorita' giudiziaria in un clima di incertezza giuridica,  cio'
che di per se'  -  ad  avviso  di  questo  Tribunale  -  implica  una
violazione dell'art. 6 della CEDU. Cio' anche in  considerazione  del
fatto che nell'ordinamento italiano non e' consentito al  Giudice  di
rimettere direttamente la questione interpretativa alle Sezioni Unite
della Suprema Corte di  Cassazione,  in  funzione  nomofilattica.  In
secondo luogo la decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite non e'
comunque vincolante per le  pronunce  successive  (ne'  sono  mancati
revirement delle medesime Sezioni  Unite,  come  gia'  sottolineato),
sicche' nemmeno dopo il piu'  autorevole  pronunciamento  gli  utenti
della Giustizia possono ritenersi certi  della  regola  giuridica  da
seguire,   essendo   comunque   soggetta   a   possibili,    diverse,
interpretazioni. 
    Ne  consegue  che  gli  utenti   della   giustizia   non   hanno,
nell'ordinamento  giuridico  italiano,  una  certezza  delle   regole
giuridiche  da  applicare,  stante  la  possibilita'   di   soluzioni
completamente  diverse   a   seconda   dell'interpretazione   fornita
dall'organo giudicante,  che  potrebbe  portare  (come  non  di  rado
accade) a soluzioni  diverse  o  addirittura  diametralmente  opposte
dinanzi a fattispecie uguali. 
    Orbene, tale incertezza integra ad avviso di questo  Giudice  una
violazione della Convenzione EDI/ che merita di essere  rimessa  alla
attenzione  del  Giudice  delle  Leggi,   per   la   verifica   della
compatibilita'  delle  norme  di  riferimento  con  l'art.  6   della
Convenzione EDU. 
    La giurisprudenza della Corte EDI)  e'  molto  chiara  sul  punto
(Broniowski v. Poland [6C1, no.  31443/96,  6'  151,  ECHR  2004-  V;
Paduraru v. Romania, no. 63252/00, § 92,  ECHR  2005-XII  (extracts);
and  Beian  v.  Romania),  a  far   data   dall'importante   sentenza
Broniowski. 
    Il principio implica che chi e' sottoposto ad una normativa debba
sapere cosa e' permesso e cosa no, cosa e' obbligatorio e cosa non lo
e', in base a norme chiare e di costante applicazione.  Solo  in  tal
modo e' rispettata l'aspettativa in  un  diritto  certo  ed  univoco,
senza il quale si perde il concetto stesso di  diritto  inteso  quale
regola generale da seguire. In sostanza la norma perde la sua  stessa
ragion d'essere. Getto in altre parole, l'affermazione del  principio
di non incertezza del diritto risponde alla esigenza  di  far  fronte
alla crescente complessita'  del  diritto,  difronte  alla  quale  la
certezza giuridica appare come un baluardo al quale  appigliarsi  per
mantenere una unita' e, in definitiva, il senso ultimo  della  regola
giuridica, idoneo ad evitare l'arbitrio. 
    In questa prospettiva, del resto, si  sono  gia'  espressi  altri
Stati aderenti alla Convenzione EDU, trovando  anche  un  riferimento
specifico nella propria Carta fondamentale.  Ad  esempio  il  Congeli
constitutionnel francese si e' espresso nel senso dell'obbligo per la
legge  di   esprimere   -   pena   l'incostituzionalita'   -   regole
intellegibili, precise e non equivoche (decisione no 2004-500 DC  del
29 juillet 2004, cons. 13): (testualmente: «II incombe au legislateur
d'exercer pleinement la competence que lui'  confie  la  Constitution
et, en particulier, son article  34.  A  cet  egard  le  principe  de
clarte' de la lo', qui decoule du meme article de la Constitution, et
l'objectif de valeur constitutionnelle et d'accessibi/ite' de la loi,
qui decoule des artic/es 4, 5, 6 et 16 de la Declaration de 1789, lui
imposent d'adopter des  dispositions  suffisamment  precises  et  des
formules non equivoques afin de premunir les sujets de  droit  contre
une interpretation contraire a' la Constitution ou contre  le  risque
d'arbitraire, sans reporter  sur  les  autorites  administratives  ou
juridictionnelles le soin de fixer des regles dont  la  determination
n'a ete' confiee par la Constitution qua la loi.»). 
    In Italia il riferimento costituzionale va rinvenuto ad avviso di
questo Tribunale negli artt. 3, 24 e 111 e nel riferimento  normativo
di  cui  all'art.  6  e  13  della  Convenzione  EDU,  come  recepito
nell'ordinamento italiano -secondo l'insegnamento della Consulta - ai
sensi degli artt. 111 e 117 della Costituzione, oltre che negli artt.
47 52 e 53 della Carta dei Diritti Fondamentali  dell'Unione  Europea
(CDFUE). 
    Ne consegue che le norme prive di sicuro ed univoco significato e
valore precettivo sono contrarie alla Costituzione, sempre ad  avviso
di  questo  Giudice,  per  il  combinato  disposto   con   le   norme
sovranazionali di principio. In particolare, simili norme - frutto di
un legiferare in termini eccessivamente generico - non sono in  grado
di ottemperare ne' all'obbligo costituzionale dettato  dal  principio
di  eguaglianza  innanzi  alla  legge  (sancito  dall'art.  3   della
Costituzione), ne' alla finalita' di assicurare la tutela dei diritti
ed interessi legittimi (tutelati dall'art.  24  della  Costituzione),
ne' alla regola del giusto processo di cui all'art. 111 Cost., inteso
nella accezione piu' lata, ne', infine,  al  principio  di  sicurezza
giuridica di cui all'art. 6 Convenzione EDU come  interpretata  dalla
Corte di Strasburgo e come  recepito  ai  sensi  dell'art.  52  della
CDFUE. 
Sulla ammissibilita' della questione. 
    Il Giudice delle Leggi si e'  espresso,  in  passato,  sulla  non
proponibilita' di questioni ermeneutiche alla Consulta (ex  plurimis:
sentenze 419/05 e 466/2000), non potendosi  la  Corte  Costituzionale
sostituirsi al giudice nella interpretazione corretta di una norma. 
    Va a maggior ragione rilevato che la questione che si  pone  oggi
alla attenzione della Consulta non e' - come nelle ipotesi in cui  si
e'  in  passato  pronunciata   -   meramente   propositiva   di   una
interpretazione piuttosto di un'altra, ma, al contrario, e'  atta  ad
evitare la violazione (che implicherebbe una possibile condanna della
Repubblica Italiana  per  «defaut  de  securite'  juriclique»)  della
violazione del principio di certezza giuridica  in  base  all'art.  6
della Convenzione EDU, nel caso in  cui  il  Giudice  a  quo  dovesse
decidere  in  base  a  dettato  normativo  non  chiaro   e   la   cui
determinazione in concreto del significato fosse di fatto  attribuito
in modo arbitrario al singolo Giudice, stante la scarsa chiarezza  ed
intellegibilita'  della  norma  (palesata  peraltro   dai   contrasti
giurisprudenziali gia' in  atto)  o  addirittura  sconfinasse  in  un
potere - di fatto - creativo della regola. 
    Sicche' si tratta di vero  e  proprio  dubbio  di  compatibilita'
costituzionale della norma di cui all'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010,  n.
28 con l'art. 6 della Convenzione Europea  per  la  Salvaguardia  dei
Diritti dell'Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo  dalla
sentenza Broniowski in poi, e con gli artt. 47 e 52 della CDFUE. 
    Tale questione deve essere quindi portata alla  attenzione  della
Corte Costituzionale, in base al meccanismo generale  indicato  dalla
Corte stessa, per le ipotesi di contrasto con le  norme  CEDU  o  con
norme UE recanti principi generali. 
Sulla esperibilita'  del  rimedio  della  questione  di  legittimita'
costituzionale per contrasto della norma invocata con la  convenzione
europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo,  secondo  la
consulta. 
    Invero, la Corte Costituzionale ha in piu' occasioni (ex  multis:
Corte Cost. 347/2007 e 348/2007) precisato che la Convenzione EDU non
crea un ordinamento giuridico sopranazionale  e  non  produce  quindi
norme direttamente applicabili  negli  Stati  contraenti.  Ad  avviso
della Consulta, la Convenzione EDU e' configurabile come un  trattato
internazionale multilaterale - pur con caratteristiche peculiari - da
cui  derivano  «obblighi»  per   gli   Stati   contraenti,   ma   non
l'incorporazione dell'ordinamento giuridico italiano  in  un  sistema
piu' vasto, dai  cui  organi  deliberativi  possano  promanare  norme
vincolanti, omisso medio, per tutte le autorita' interne degli  Stati
membri, rilevando che il giudice a quo aveva correttamente escluso di
poter risolvere il dedotto contrasto della norma  censurata  con  una
norma CEDU, come interpretata dalla Corte di  Strasburgo,  procedendo
egli  stesso  a  disapplicare  la  norma  interna  asseritamente  non
compatibile con la seconda. 
    In altre decisioni (Corte Costituzionale 311/2009 e 317/2009)  il
Giudice delle leggi ha anche precisato che  la  Corte  Costituzionale
non puo' sostituire la propria interpretazione  di  una  disposizione
della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con cio'  uscendo  dai
confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno
assunto dallo Stato italiano con la  sottoscrizione  e  la  ratifica,
senza l'apposizione di riserve, della Convenzione, ma  puo'  valutare
come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione  della  Corte
europea si inserisca  nell'ordinamento  costituzionale  italiano.  La
norma CEDU, nel momento  in  cui  va  ad  integrare  il  primo  comma
dell'art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema  delle
fonti, con tutto cio' che  segue  in  termini  di  interpretazione  e
bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni compiute dalla  Corte
in tutti i giudizi di sua competenza. 
    In definitiva, facendo leva sul dettato dell'art. 117 della Carta
fondamentale, la Consulta ha rilevato che il parametro costituzionale
e' espresso dall'art. 117, primo comma, Cost.,  nella  parte  in  cui
impone  la  conformazione  della  legislazione  interna  ai   vincoli
derivanti dagli «obblighi internazionali». Pertanto, ove  si  profili
un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della  CEDU,
il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilita' di  una
interpretazione della  prima  in  senso  conforme  alla  Convenzione,
avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e,  ove
tale verifica dia esito negativo  -  non  potendo  a  cio'  rimediare
tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante
- egli  deve  denunciare  la  rilevata  incompatibilita',  proponendo
questione di legittimita' costituzionale in riferimento  all'indicato
parametro. A sua volta,  la  Corte  costituzionale,  investita  dello
scrutinio, pur non potendo  sindacare  l'interpretazione  della  CEDU
data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se la  norma
della Convenzione - la quale si  colloca  pur  sempre  a  un  livello
sub-costituzionale - si ponga eventualmente in  conflitto  con  altre
norme della Costituzione: ipotesi nella quale dovra'  essere  esclusa
la idoneita' della  norma  convenzionale  a  integrare  il  parametro
considerato. Sulla integrazione da  parte  delle  norme  della  CEDU,
quali «norme interposte», dell'art. 117, primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali. 
    Alla stregua di tale ragionamento, il giudice nazionale e' tenuto
a rimettere alla Consulta la questione sottostante  la  decisione  da
adottare, posto che implica la soluzione di un problema di  contrasto
tra la norma interna e la Convenzione Europea per la salvaguardia dei
Diritti dell'Uomo, come interpretata dalla Corte di Strasburgo. 
La rilevanza della giurisprudenza della  corte  edu  nell'ordinamento
interno, secondo la consulta. 
    Vanno anche svolte  le  opportune  precisazioni  in  merito  alla
valorizzazione  del   potere   interpretativo   dei   giudici   nella
giurisprudenza costituzionale e' tale che, nella sentenza n. 239  del
2009, la Corte si spinge fino al punto di ritenere che  l'esperimento
del tentativo d'interpretazione conforme alla Convenzione europea sia
una condizione necessaria per la valida instaurazione del giudizio di
legittimita' costituzionale, ripetendo lo schema che ormai da anni e'
utilizzato a proposito  del  dovere  di  interpretazione  conforme  a
Costituzione.  Per  superare  il  vaglio  di   ammissibilita'   della
questione di legittimita' costituzionale,  quindi,  il  giudice  deve
dimostrare che il tenore testuale della norma interna  o  il  diritto
vivente  eventualmente  formato  sulla  legge  interna  si  oppongono
all'assegnazione a tale legge di un significato  compatibile  con  la
norma convenzionale. 
    Peraltro, come la stessa Corte Costituzionale  esplicitamente  ha
sottolineato, in  relazione  alla  Convenzione  Europea  dei  Diritti
dell'Uomo,  il  giudice  comune  non  ha  soltanto   il   dovere   di
interpretare  il  diritto  interno  in   modo   conforme   a   quello
internazionale,  ma  deve  fare  cio'  tenuto   conto   della   norma
convenzionale come interpretata dalla Corte di Strasburgo. 
    In realta', gia' prima dell'intervento della Consulta, il vincolo
dell'interpretazione adeguatrice si era affermato  presso  i  giudici
comuni, come confermano, tra le altre, le  sentenze  della  Corte  di
Cassazione a Sezioni Unite da n. 1339 a n.  1341  del  2004,  ove  si
impone ai giudici nazionali di non  discostarsi  dall'interpretazione
che della Convenzione da' il giudice europeo. E', tuttavia, oggi, che
la Corte costituzionale eleva questo compito a vero e proprio vincolo
per il giudice comune. 
    Con  riferimento  alle  sole  norme   convenzionali,   la   Corte
costituzionale precisa che esse vivono nell'interpretazione che viene
data loro dalla Corte europea (cosi' la sent. n.  348  del  2007,  ma
similmente anche la sent. n. 349 del 2007), nel  senso  che  la  loro
«peculiarita'»,   nell'ambito    della    categoria    delle    norme
internazionali pattizie che fungono da  norme  interposte,  «consiste
nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo,  alla
quale  gli  Stati  contraenti,   salvo   l'eventuale   scrutinio   di
costituzionalita', sono  vincolati  ad  uniformarsi»  (sent.  39  del
2008). 
    Quando viene in rilievo la  Convenzione  europea,  su  tutti  gli
organi  giurisdizionali  nazionali,  Corte  costituzionale  compresa,
ciascuno nell'esercizio delle proprie competenze,  grava  un  vincolo
interpretativo assoluto e incondizionato  alla  giurisprudenza  della
Corte di Strasburgo per la determinazione dell'esatto  contenuto  del
vincolo internazionale. 
    La rigidita' di tale condizionamento ermeneutico  rappresenta  il
risultato di un iter le cui tappe fondamentali  si  rinvengono  nelle
sentenze 348 e 349  del  2007,  39/2008,  311  e  317/2009  e  187  e
196/2010. 
    Nelle  sentenze  nn.   348   e   349   emergeva   una   «funzione
interpretativa eminente da parte  della  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo che si sostanzia anche nel fatto che «le norme  della  CEDU
vivono nell'interpretazione che viene data loro dalla Corte europea».
La consacrazione del ruolo della giurisprudenza avviene, quindi,  per
via giurisprudenziale: e' una Corte a legittimare un'altra Corte (con
affermazioni, si noti, suscettibili di assumere valenza  generale,  e
quindi, all'occorrenza, anche autoreferenziale)]. 
    Al riconoscimento della funzione  interpretativa  eminente  della
Corte Edu segue un passaggio in cui si afferma che «[s]i  deve  (...)
escludere  che  le  pronunce  della   Corte   di   Strasburgo   siano
incondizionatamente   vincolanti   ai   fini   del    controllo    di
costituzionalita' delle leggi nazionali», dovendosi  «Male  controllo
[...] sempre ispirar[e] al ragionevole bilanciamento tra  il  vincolo
derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall'art. 117,
comma 1,  Cost.,  e  la  tutela  degli  interessi  costituzionalmente
protetti contenuta in altri articoli della Costituzione». 
    Si  poteva,  quindi,   ancora   legittimamente   dubitare   della
sussistenza di un monopolio esclusivo, in capo alla Corte europea dei
diritti dell'uomo, circa il  significato  da  attribuire  alla  CEDU,
senza possibilita' alcuna, da parte dei giudici comuni e specialmente
da parte della Corte costituzionale, di integrare quel significato. 
    Qualche tempo dopo i dubbi sul punto si sono dissolti  quasi  del
tutto. Il Giudice delle leggi, infatti, nella  decisione  n.  39  del
2008,  facendo  dire,  attraverso  la  nota  tecnica   di   citazione
manipolativa del precedente, quanto in realta' non  si  diceva  nelle
decisioni del  2007,  ha  sottolineato  che  tali  decisioni  avevano
precisato che la peculiarita'  delle  norme  della  CEDU  nell'ambito
della categoria delle  norme  interposte  risiede  «nella  soggezione
all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale  gli  Stati
contraenti, salvo l'eventuale scrutinio  di  costituzionalita',  sono
vincolati ad uniformarsi». 
    Un vincolo interpretativo, dunque, assoluto e incondizionato alla
giurisprudenza della Corte europea in capo ai giudici comuni ed  alla
Corte costituzionale per quanto riguarda l'inquadramento  dell'esatta
portata della norma convenzionale. Vincolo che non emergeva,  invece,
dalle decisioni del 2007 e che  viene  invece  ora  confermato  dalle
decisioni nn. 311 e 317/2009, ove  espressamente  si  dice  che  alla
Corte costituzionale, salvo ovviamente la possibilita' che una  norma
CEDI.)  sia  in  contrasto  con  la  Costituzione,  «e'  precluso  di
sindacare l'interpretazione della Convenzione europea  fornita  dalla
Corte di Strasburgo, cui tale funzione e' stata attribuita dal nostro
Paese senza apporre riserve» (sent. 311/09). 
    La funzione  interpretativa  della  Corte  europea  e'  diventata
dunque talmente eminente da escludere qualsiasi intervento  da  parte
di altri giudici, comuni e costituzionali,  volto  ad  una  possibile
integrazione del significato  delle  disposizioni  della  Convenzione
oggetto di interpretazione da parte della Corte di Strasburgo. 
    Alla valorizzazione  del  vincolo  interpretativo  nei  confronti
della giurisprudenza della Corte europea si accompagna, tuttavia,  il
riconoscimento della possibilita' che, in determinati casi, la stessa
Corte europea dei diritti dell'uomo attribuisca agli Stati membri  la
facolta' di discostarsi dagli orientamenti di Strasburgo.  Cio'  puo'
avvenire, come  specifica  la  sentenza  n.  311,  in  relazione,  ad
esempio, alla possibilita' che per «motivi  imperativi  di  interesse
generale, il legislatore si possa  sottrarre  al  divieto,  ai  sensi
dell'art.  6   CEDU   di   interferire   nell'amministrazione   della
giustizia». 
    La posizione della Corte  costituzionale  in  merito  al  vincolo
ermeneutico gravante sul giudice interno rispetto alla giurisprudenza
della corte Edu risulta recentemente confermata  nelle  sentenze  nn.
187 e 196 del 2010. Nella prima delle due  pronunce  la  Corte,  dopo
aver  richiamato  e  ripercorso  la  giurisprudenza  della  Corte  di
Strasburgo pertinente alla disposizione che veniva in rilevo nel caso
di specie, afferma che: «Lo scrutinio di legittimita'  costituzionale
andra' dunque condotto alla luce dei segnalati  approdi  ermeneutici,
cui la Corte di Strasburgo e' pervenuta nel  ricostruire  la  portata
del principio di  non  discriminazione  sancito  dall'art.  14  della
Convenzione, assunto dall'odierno rimettente a parametro  interposto,
unitamente all'art. i del Primo Protocollo addizionale, che la stessa
giurisprudenza europea ha ritenuto raccordato, in tema di prestazioni
previdenziali, al principio innanzi  indicato  (in  particolare,  sul
punto, la citata decisione di ricevibilita' nella causa Stec ed altri
contro Regno Unito)». 
    Nella  sentenza  n.  196/2010  la  Corte   afferma   che   «dalla
giurisprudenza della Corte di Strasburgo,  formatasi  in  particolare
sull'interpretazione degli articoli 6 e  7  della  CEDU,  si  ricava,
pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di  carattere
punitivo - afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina
della sanzione penale in senso stretto». 
    Le affermazioni contenute nelle sentenze del 2010 sono indicative
di come progressivamente il  ruolo  della  Corte  di  Strasburgo  sia
cambiato, non tanto nelle modalita' di azione, che  si  concretizzano
nell'accertamento   e   nella   condanna   delle   violazioni   della
Convenzione, quanto nel significato sempre maggiore assunto dalla SUO
attivita' interpretativa. Come e' noto, non esiste  per  la  CEDO  un
meccanismo analogo a quello previsto dall'art. 267 TFUE (ex art.  234
TCE), che permetta al giudice di rivolgersi alla Corte qualora  abbia
un dubbio interpretativo, ma la prassi ha determinato  nel  tempo  un
legame  altrettanto  forte,  legame   che   oggi   e'   espressamente
riconosciuto dalla Corte costituzionale. 
    Il quadro complessivo che risulta dalle due sentenze del 2010  si
avvicina, quindi, a quello che  era  stato  delineato  da  chi  aveva
previsto che «nella  misura  in  cui  si  afferma  negli  ordinamenti
nazionali il principio di supremazia delle  norme  internazionali  su
quelle interne, almeno  nella  forma  del  pacca  sunt  servanda,  le
pronunce della  Corte  europea  finiranno  con  l'assumere  carattere
vincolante, sia nel senso di determinare  l'invalidita'  delle  norme
interne  ritenute  incompatibili  con  la  Cedu,  sia  nel  senso  di
orientare   in   funzione   della    giurisprudenza    della    Corte
l'interpretazione delle norme nazionali». 
    L'affermazione secondo cui, in  generale,  «le  norme  giuridiche
vivono nell'interpretazione che ne danno gli operatori del diritto, i
giudici in primo luogo» e,  in  particolare,  «le  norme  della  CEDU
vivono nell'interpretazione che delle stesse viene data  dalla  Corte
europea»  (sicche'   "tra   gli   obblighi   internazionali   assunti
dall'Italia con la sottoscrizione e la  ratifica  della  CEDU  vi  e'
quello di  adeguare  la  propria  legislazione  alle  norme  di  tale
trattato,  nel  significato  attribuito  dalla  Corte  specificamente
istituita per dare ad esse interpretazione ed  applicazione»)  sembra
quindi aver portato a compimento e, per cosa dire, alle  sue  estreme
conseguenze un percorso di acquisizione di consapevolezza  del  ruolo
della CEDU nell'ordinamento interno. 
    Cio' non puo' che valere anche per il  principio  della  certezza
del diritto (il defaut de securite' juridique). 
La rilevanza della convenzione edu nell'ordinamento interno, nel caso
di specie. 
    Cio' premesso, va sottolineato anche che, nel caso di specie,  vi
e' una diretta interconnessione anche con la CDFUE. 
    Ragionamento relativo al «defaut de securite' juridique che si e'
pocanzi  prospettato  e'  quindi  egualmente   valido   ed   operante
nell'ordinamento interno  anche  per  le  ulteriori  motivazioni  che
seguono. 
    Invero, la Carta Europea  dei  Diritti  Fondamentali  dell'Unione
Europea (CDFUE) ha valore di trattato per gli Stati membri,  in  base
al trattato di Lisbona. 
    Tale carta CEDFUE disciplina il rapporto con la Convenzione EDU e
la relativa giurisprudenza precisando all'art. 52  comma  3  che  «3.
Laddove la presente Carta contenga diritti  corrispondenti  a  quelli
garantiti dalla convenzione europea per la salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, il significato e la  portata
degli  stessi  sono  uguali  a  quelli   conferiti   dalla   suddetta
convenzione. La presente disposizione non  preclude  che  il  diritto
dell'Unione conceda una protezione piu' estesa.»  Orbene,  l'art.  47
della CEDFUE dispone che «Ogni individuo  i  cui  diritti  e  le  cui
liberta' garantiti dal diritto dell'Unione  siano  stati  violati  ha
diritto a un ricorso effettivo dinanzi a  un  giudice,  nel  rispetto
delle condizioni previste nel presente articolo. 
    Ogni individuo ha diritto  a  che  la  sua  causa  sia  esaminata
equamente, pubblicamente  ed  entro  un  termine  ragionevole  da  un
giudice indipendente e  imparziale,  precostituito  per  legge.  Ogni
individuo  ha  la  facolta'  di  farsi   consigliare,   difendere   e
rappresentare. 
    A coloro che non dispongono di mezzi sufficienti e'  concesso  il
patrocinio a  spese  dello  Stato  qualora  cid  sia  necessario  per
assicurare un accesso effettivo alla giustizia.» 
    La corrispondenza con la Convenzione EDU e' evidente e palese dal
raffronto con l'art. 6, che recita «1..Ogni persona ha diritto a  che
la sua causa sia  esaminata  equamente,  pubblicamente  ed  entro  un
termine  ragionevole  da  un  tribunale  indipendente  e  imparziale,
costituito per legge, il quale  sia  chiamato  a  pronunciarsi  sulle
controversie sui suoi diritti e doveri di carattere  civile  o  sulla
fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (.)»  e
con l'art.  13  «Ogni  persona  i  cui  diritti  e  le  cui  liberta'
riconosciuti nella  presente  Convenzione  siano  stati  violati,  ha
diritto a un ricorso effettivo davanti a un'istanza nazionale,  anche
quando la violazione sia  stata  commessa  da  persone  che  agiscono
nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali» 
    Ne deriva che i principi elaborati dalla Corte EDU  in  relazione
alla Convenzione EDU, ivi compreso  quello  relativo  al  «defaut  de
securite' juridique» trovano applicazione nell'ordinamento  italiano,
anche al di fuori  delle  materie  di  competenza  della  Convenzione
stessa. In tali ipotesi, ad avviso di parte della Giurisprudenza,  si
potrebbe procedere a disapplicazione della norma interna direttamente
da parte del giudice nazionale. Anche ove si volesse aderire  a  tale
orientamento, la questione, pero', non verrebbe comunque  in  rilievo
nel caso di specie. 
Sulla  necessita'  della  rimessione  della  questione   alla   Corte
costituzionale. 
    Nella fattispecie, difatti, si pone il problema di come procedere
quando il contrasto della norma legislativa interna sussiste non gia'
nei confronti dl una norma comunitaria  direttamente  applicabile,  a
sua volta idonea a fornire la  regula  juris  per  il  caso  concreto
(poiche' allora il  contrasto  si  risolve  con  la  applicazione  di
quest'ultima, e la «disapplicazione» (o non applicazione) della norma
interna, da parte del giudice comune), ma nei confronti di  principio
di diritto comunitario o della Convenzione EDU. 
    Ci si deve domandare cioe' se, in questo caso, il giudice possa o
debba risolvere da se' il contrasto, negando applicazione alla  legge
interna, non perche' utilizza in sua vece una  norma  comunitaria  di
diretta applicazione, ma solo perche' la  legge  interna  gli  appare
viziata dal conflitto con  i  principi  del  diritto  comunitario  in
combinato disposto con il diritto della Convenzione EDU. 
    Il problema e'  particolarmente  delicato  perche'  il  contrasto
riguarda  dei  principi  «comunitari»  di  contenuto  sostanzialmente
corrispondente ai principi costituzionali, posto  che  si  tratta  di
diritti fondamentali (ipotesi che sussiste automaticamente quando  si
chiama in causa la applicazione della Giurisprudenza della  Corte  di
Strasburgo sulla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei  Diritti
dell'Uomo). 
    Infatti, in questa ipotesi, se si ammette che  il  giudice  possa
disapplicare la legge nazionale perche' la ritiene in contrasto con i
principi  comunitari/CEDU  in  tema  di  diritti,   senza   sollevare
questione di costituzionalita', si verifica un paradosso: il giudice,
al quale il nostro ordinamento preclude  sia  l'applicazione  sia  la
disapplicazione  della   legge   sospetta   di   incostituzionalita',
obbligandolo a investire della  questione,  in  via  incidentale,  la
Corte   costituzionale,   potrebbe   invece,   in   alternativa,    e
sostanzialmente per gli stessi motivi, disapplicare  direttamente  la
legge per contrasto con i principi comunitari. 
    Nella giurisprudenza comune e'  dato  gia'  di  rinvenire  alcune
pronunce di giudici di merito che ragionano cosi' nei riguardi  della
Convenzione europea dei diritti dell'uomo: la Convenzione, in  quanto
richiamata dai Trattati, e' diritto comunitario (e cio' varra'  ancor
piu' una volta costituzionalizzata la Carta dei diritti, e una  volta
realizzata l'adesione formale dell'Unione  alla  Convenzione  europea
dei diritti, come previsto dall'art. 7, paragrafo 2, del progetto  di
trattato costituzionale); il diritto comunitario prevale sul  diritto
interno,  e  il  giudice  e'  abilitato  e  tenuto   ad   applicarlo,
disapplicando la legge interna contrastante. Ergo,  il  giudice  puo'
direttamente disapplicare la legge  italiana  che  contrasta  con  la
Convenzione europea. 
    Dato il carattere generale e di principio proprio di molte  norme
della Convenzione, pero', questo modo di ragionare conduce ad  avviso
di questo giudice ad  instaurare  un  nuovo  sistema,  parallelo,  di
sindacato di costituzionalita'  sulle  leggi,  realizzabile  in  modo
diffuso dai giudici comuni.  Ma  cio'  porrebbe  sostanzialmente  nel
nulla  il  principio  del  nostro  ordinamento,  secondo   cui   sono
accentrati nella Corte costituzionale  il  potere  e  il  compito  di
privare  di  efficacia  le  leggi  ordinarie  in  contrasto  con   la
Costituzione: principio a cui non sarebbe implausibile attribuire  la
portata di principio supremo dell'ordinamento costituzionale, sicche'
non pare applicabile. 
    Mentre,  infatti,  il  conflitto  fra  norme  interne   e   norme
comunitarie di diretta applicazione puo' essere risolto in termini di
separazione dei due ordinamenti, applicando la  norma  comunitaria  e
conseguentemente   negando   applicazione    alla    norma    interna
incompatibile, il conflitto della norma interna con principi  sanciti
nella Costituzione e insieme nel diritto comunitario UE in  relazione
alla Convenzione EDU (come quelli in tema  di  diritti  fondamentali)
non puo' essere risolto se non attraverso un  espresso  sindacato  di
legittimita' sull'atto legislativo ordinario: e questo,  nel  sistema
vigente,  spetta,  per  quanto  riguarda  gli  atti  di  legislazione
ordinaria, statale o regionale, alla  Corte  costituzionale,  essendo
precluso  al  giudice  comune   sia   applicare,   sia   direttamente
disapplicare le norme legislative riguardo alle quali sorga il dubbio
sulla loro compatibilita' con norme di rango sovraordinato, 
    Resta quindi in ogni caso interamente in capo ai giudici comuni -
cosi' come essi debbono sempre interpretare le leggi  in  conformita'
alla Costituzione il potere-dovere di interpretare le  leggi,  quando
operano in campi coperti dal diritto comunitario, in conformita'  con
quest'ultimo, come accertato in ultima analisi  dalla  giurisprudenza
della Corte di giustizia, oltre che, in conformita' alle norme  della
convenzione europea sui diritti, quali risultano dalla giurisprudenza
della Corte di Strasburgo. 
    Pur non potendo escludersi,  nemmeno  in  un  contesto  siffatto,
incertezze o contrasti di giurisprudenza in un campo delicato  com'e'
quello della  garanzia  dei  diritti  fondamentali,  si  eviterebbero
comunque conseguenze «eversive» dei criteri cui il nostro costituente
si e' ispirato  in  tema  di  rapporto  fra  giurisdizioni  comuni  e
giurisdizione costituzionale,  oltre  che  foriere,  in  pratica,  di
imprevedibili sviluppi (o avventure) giurisprudenziali. 
Sulla  conformita'  alla  costituzione  ed  alle  norme   comunitarie
dell'istituto della mediazione. 
    Ovviamente tale soluzione presuppone la soluzione, a monte, della
questione di legittimita' costituzionale e di compatibilita'  con  le
norme UE  dell'istituto  della  mediazione  introdotto  dalla  d.lgs.
28/2010. 
    Viceversa, dovrebbe procedersi  a  disapplicazione  dell'istituto
della mediazione nel suo insieme, senza entrare nello  specifico  del
difetto di certezza di diritto costituzionalmente rilevante  riguardo
all'ambito applicativo della norma. 
    In proposito, ed attendendo gli insegnamenti della Consulta sulle
questioni gia' sollevate da altri uffici giudiziari,  questo  Giudice
ritiene di limitare i quesiti alla attenzione della Consulta a quelli
sopra  evidenziati  sinteticamente  considerato,   in   ordine   alle
questioni pendenti innanzi alla Consulta, che la  previsione  di  uno
strumento  quale  il  tentativo  obbligatorio  di  conciliazione   e'
finalizzata ad assicurare  l'interesse  generale  al  soddisfacimento
piu' immediato delle situazioni sostanziali realizzato attraverso  la
composizione preventiva  della  lite  rispetto  a  quello  conseguito
attraverso il  processo,  risultando,  per  tale  via,  perfettamente
coerente anche con i principi e  gli  obiettivi  propri  del  diritto
comunitario. Il fatto che il d.lgs 28/2010 non preveda la  necessaria
assistenza di un difensore, infatti, non significa che alla parte sia
vietato avvalersi  di  un  avvocato  nel  corso  della  procedura  e,
comunque, come ha osservato attenta dottrina, la mediazione opera  su
un piano  esclusivamente  negoziale,  potendo,  sotto  tale  profilo,
essere avvicinata alla  disciplina  dell'arbitrato,  in  cui  non  e'
prevista per le parti  l'assistenza  obbligatoria  dell'avvocato.  La
costituzionalita' della normativa citata, per tutte le ragioni  sopra
illustrate, permette di affermarne anche  la  compatibilita'  con  il
diritto comunitario, per come evincibile anche dalla sentenza del  18
marzo  2010   della   Corte   di   giustizia   dell'Unione   europea,
pronunciatasi (nelle cause riunite  C-317/08,  C-318/08,  C-319/08  e
C-320/08) proprio sulla previsione, da parte dello Stato italiano, di
un  tentativo   obbligatorio   di   conciliazione   in   materia   di
telecomunicazioni. La Corte di Lussemburgo, infatti, ha affermato che
il diritto alla tutela giurisdizionale,  quale  diritto  fondamentale
dell'individuo, puo'  anche  soggiacere  a  restrizioni,  purche'  le
stesse risultino proporzionate e  funzionali  al  soddisfacimento  di
interessi  generali,  quali,  appunto,  il   decongestionamento   dei
tribunali  o  la  definizione  piu'  spedita  e  meno  onerosa  delle
controversie in materia di comunicazioni  elettroniche.  Inoltre,  il
procedimento  di  mediazione  obbligatoria  non  preclude  la  tutela
cautelare e la trascrizione della domanda giudiziale; produce,  sulla
decadenza e sulla prescrizione, effetti simili a quelli propri  della
domanda giudiziale. Il sacrificio in  termini  di  tempo  e  i  costi
imposti dalla mediazione obbligatoria, del resto, sono potenzialmente
giustificati e resi ragionevoli dal «vantaggio» che puo' ottenersi in
caso di esito positivo della procedura. Infine, non sembra profilarsi
neppure il denunciato eccesso di delega. L'articolo  60  della  legge
69/2009 nulla, infatti, ha previsto in ordine alla facoltativita'  od
obbligatorieta' del preventivo ricorso alla mediazione  e  la  scelta
della  obbligatorieta'  fatta  dal  Legislatore  non  e'  una  scelta
irragionevole,  in  quanto  non  si  pone  fuori   dalla   tradizione
processuale italiana,  che  conosce,  come  noto,  varie  ipotesi  di
tentativi obbligatori di conciliazione.  La  costituzionalita'  della
normativa citata permette di affermarne anche la  compatibilita'  con
il diritto comunitario, per come evincibile anche dalla  sentenza  18
marzo  2010   della   Corte   di   giustizia   dell'Unione   europea,
pronunciatasi (nelle cause riunite  C-317/08,  C-318/08,  C-319/08  e
C-320/08) proprio sulla previsione, da parte dello Stato italiano, di
un  tentativo   obbligatorio   di   conciliazione   in   materia   di
telecomunicazioni. 
    Per queste ragioni si ritiene che l'istituto in se' sia  conforme
(ed anzi auspicato) alle normative  sovranazionali,  sicche'  non  si
pone alcun problema di compatibilita'  dell'istituto  con  l'impianto
costituzionale  e  normativo  europeo,  ma  solo  una  questione   di
determinazione dell'ambito  di  applicazione  sotto  il  profilo  del
difetto di «securite' juridique. 
    In  questa  ipotesi  non   pua'   il   giudice   procedere   alla
disapplicazione totale di un apparato normativa conforme alle leggi e
ai principi cui e' gerarchicamente sottoposta, ma deve  limitarsi  ad
interessare il Giudice delle Leggi alla verifica di costituzionalita'
relativamente al profilo di interesse. 
Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5 d.lgs.  4  marzo
2010, n. 28 - attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno 2009,
n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione  delle
controversie civili e commerciali (G.U. n. 53 del 5-3-2010). 
    Per questi ragioni si ritiene di dover sollevare di  ufficio,  in
quanto rilevante e non manifestamente infondata, la  questione  della
legittimita' costituzionale dell'art. 5 d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28  -
attuazione dell'articolo 60 della legge 18 giugno  2009,  n.  69,  in
materia  di   mediazione   finalizzata   alla   conciliazione   delle
controversie civili e commerciali (GU n.53 del 5-3-2010) in relazione
all'art. 24  della  Costituzione  ed  all'art.  6  della  CEDO,  come
interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo, nella parte in cui non
prevede una regola certa ed idonea  ad  evitare  un  vero  e  proprio
«defaut de securite' juridique» (mancanza di  certezza  del  diritto)
nei confronti delle parti del processo. 
    In subordine, si ritiene di dover sollevare di ufficio, in quanto
rilevante  e  non  manifestamente  infondata,  la   questione   della
legittimita'  costituzionale  dell'art.  372  comma  2  e  3  cpc  in
relazione all'art. 24,111 della Costituzione e all'art. 6 della CEDU,
come interpretata dalla stessa Corte di Strasburgo,  nella  parte  in
cui non prevede la possibilita' per il giudice di ogni ordine e grado
di richiedere preventivamente una pronuncia delle  Sezioni  Unite  in
funzione nomofilattica, analogamente a quanto previsto dall'art.  267
del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea in relazione  alle
pronunce pregiudiziali della Corte di Giustizia Europea in merito  ai
dubbi interpretativi di norme comunitarie. Solo in tal modo,  invero,
potrebbe evitarsi che nel caso  di  specie  le  parti  si  trovino  a
chiedere l'applicazione di una  norma  dal  contenuto  incerto  senza
essere a conoscenza prima della decisione stessa della reale  portata
precettiva della norma, in presenza di dubbi  ermeneutici  irrisolti,
affrontando un giudizio in stato di  defaut  de  securite'  juridique
contrario alla Convenzione Europea per la  Salvaguardia  dei  Diritti
dell'Uomo come interpretata dalla Corte di Strasburgo e come recepito
nell'ordinamento UE ai sensi degli artt. 47 e 52 della CDFUE. 
    In sostanza si porta alla attenzione del Giudice delle  Leggi  la
questione, non nuova nel dibattito sulle tecniche  di  redazione  dei
testi normativi, della conformita' alla  Costituzione  (in  combinato
disposto con la Convenzione EDU) di testi legislativi  dal  contenuto
non  univoco  e  di  non  certa  interpretazione,  cosi'  come   gia'
affrontato dagli organi di verifica della legittimita' costituzionale
di altri Paesi membri, non ultima la  citata  decisione  del  Conseil
Costitutionnel della Repubblica Francese.